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Nell'assolata isola di Lemno il terreno era costituito per tre quarti da arida roccia e, per il resto, da una pianura sabbiosa di continuo battuta da venti impetuosi che sconvolgevano i solchi tracciati dagli aratri e seccavano i germogli. La fame minacciava gli sventurati abitanti dell'isola, verso i quali certamente gli dei non avevano rivolto finora il loro sguardo propizio. In un' annata più dura delle altre il raccolto già scarso fu quasi del tutto distrutto da una schiera di corvi bianchi che devastarono i campi con le spighe ormai mature che biondeggiavano al sole. Erano corvi bianchi mai visti prima, dei quali non si conosceva nemmeno la provenienza. Allora i notabili del paese, considerando la situazione gravissima, convocarono tutto il popolo sulla sterile pianura davanti al mare per decidere come affrontare l'emergenza. Non spirava un alito di vento, il cielo era di un azzurro intenso e il mare era calmo. La bellezza del paesaggio e la calma della natura circostante stridevano con la tristezza degli uomini riuniti sulla spiaggia e disperati poiché pensavano con terrore alloro focolare spento e alla fame che incombeva su tutti. Parlò per primo il decano, un uomo molto saggio con una barba lunga fino alle ginocchia: Dobbiamo continuare a vivere in questo luogo sterile, che ci minaccia di morte ogni giorno di più. O non sarebbe meglio tentare l'avventura e prendere il mare alla ricerca di terre più generose Cosa ne pensi tu, popolo di Lemno? A quelle domande si alzò un mormorio di lamenti e di accorate esclamazioni. I pareri erano discordi: alcuni sostenevano che era necessario abbandonare l'isola che si era mostrata così ingrata verso i suoi abitanti i quali avevano cercato in tutti i modi di renderla fertile e ospitale; altri affermavano, invece, che non era giusto arrendersi alle difficoltà della vita e che lasciare quella terra poteva comportare rischi ancora peggiori. Gli altri luoghi potrebbero essere già occupati sostenevano. E se fossero abitati da terribili mostri.
A un tratto, mentre gli uomini stavano discutendo, un tonfo sordo attirò la loro attenzione: dal cielo era caduto qualcosa sopra un macigno che sovrastava la spiaggia. I più giovani si arrampicano curiosi per vedere da vicino quello strano oggetto e, dalla cima del macigno, fecero cenno agli altri di avvicinarsi velocemente. Tutti accorsero e dapprima videro solo un groviglio di cenci. Poi il fagotto si aprì e da esso uscì la creatura più bizzarra che avessero mai visto: un uomo con la testa grossa e riccioluta, due occhi fiammeggianti, il dorso tozzo, due gambe corte e arcuate di cui una non perfettamente attaccata al tronco come l'altra, pur essendo salda e robusta. Una smorfia di dolore apparve sulle sue labbra, quando cercò di alzarsi da terra. Che male gemette indicando la gamba destra. Alcune persone gli si avvicinarono per aiutarlo ad alzarsi e gli domandarono: Chi sei Da dove vieni. Sono Vulcano rispose e vengo dal cielo. Sono il figlio di Giove e di Giunone. Mio padre mi ha scacciato dell'Olimpo per il mio orrido aspetto che offendeva la sua splendida dimora, ma sono sempre un dio. Mentre parlava la gamba riprese a fargli male. Allora lo condussero subito nelle più fresca capanna vicina alla riva del mare e chiamarono una maga che conosceva le virtù di tutte le erbe. La donna portò un prodigioso unguento fatto con tredici erbe, unse la gamba e lo fasciò con delle alghe marine. Dopodiché lo fece alzare.
Vulcano riuscì a stare in piedi e, pur zoppicando, cominciò a camminare trascinando l'arto inferiore con un'andatura goffa e ridicola. Nessuno, però, si permise di ridere perché il suo sguardo incuteva rispetto e timore.Vulcano era il più abile degli artisti celesti ed era capace di compiere opere meravigliose usando la terra e il fuoco. Senza perdere tempo volle ricompensare gli abitanti di Lemno dell' aiuto e dell' accoglienza ricevuti e decise di mettersi al lavoro. Scelse una grotta e vi si chiuse dentro risoluto. Di lì a poco si sentì provenire da quella grotta un gran fragore di incudini e di martelli e si videro venire fuori milioni di scintille. I più curiosi entrarono a spiare e con grande meraviglia videro che sottoterra, tra le tenebre, era sorta la più bella officina di fabbro che si fosse mai vista: c'erano incudini, mantici, martelli, un enorme camino in cui ardeva legna profumata, un crogiolo colmo di metallo fuso. Al centro c'era Vulcano che, madido di sudore, picchiava con un grande martello una barra di ferro incandescente che spruzzava faville tutt'intorno. Dopo qualche ora il dio interruppe il suo lavoro e mostrò agli abitanti le sue mirabili opere: scudi istoriati, splendide corazze, lance, frecce, scettri meravigliosi, corone sfolgoranti di gioielli. Tutti ammirarono stupiti quelle opere favolose. Subito dopo Vulcano tornò nella sua officina e riprese a produrre oggetti sempre più raffinati scavando nella roccia le pietre più preziose. In breve tempo la sua fama si sparse ovunque e iniziarono ad arrivare a Lemno mercanti sempre più numerosi che volevano comprare le sue splendide creazioni e in cambio portavano sacchi di grano, ceste di frutta e botti piene di vino e uno squisito liquore di mele. Lo spettro della carestia era ormai un ricordo lontano. Un giorno Vulcano, che era molto amato e stimato da tutti gli abitanti di Lemno, uscì dalla sua officina completamente ricoperto di fuliggine e arso dal fuoco come sempre. Intorno a lui c'erano alcuni ragazzi a cui aveva insegnato la preziosa arte di forgiare i metalli. Giunto al centro della piazza disse alla popolazione: Ho pagato il mio debito di gratitudine. Eravate poveri e vi ho dato lavoro e ricchezza, pensavate che la terra fosse sterile e vi ho fatto conoscere il tesoro nascosto nelle sue viscere. Ora devo lasciarvi, altre opere più gloriose mi attendono. Prima di partire, però, vi lascio questo messaggio: finché eravate poveri nessuno vi considerava, ma ora non è più così. La vostra ricchezza susciterà l'invidia di molti e dall'invidia nascerà la prepotenza contro di voi. Per questo voglio donarvi una difesa sicura.A un suo cenno un ragazzo portò allora un cane di bronzo di proporzioni naturali e di forme molto armoniose. Vulcano continuò a parlare: Ho forgiato questo cane con le mie stesse mani in modo che ubbidisca ai miei ordini. Detto questo soffiò per tre volte sopra il cane e questi si animò: le orecchie si drizzarono, le palpebre si aprirono, la bocca fece uscire un guaito di gioia, la coda iniziò a muoversi in segno di allegria. Ecco il vostro protettore aggiunse Vulcano. Ora lo faròdi nuovo dormire, ma vi assicuro che se qualcuno tentasse di minacciare questa isola che mi accolse e mi aiutò, il cane di bronzo riacquisterà la vita e i suoi latrati incuteranno tanto spavento che il nemico fuggirà. Allora si chinò di nuovo sulla bestia e le soffiò sul muso. Subito il cane tornò a essere inanimato e fu sistemato su di un piedistallo al centro della piazza. Dopodiché Vulcano partì da Lemno lasciando la popolazione riconoscente, ma al tempo stesso disperata. Passato qualche tempo la sua fama arrivò anche all'Olimpo. Lo stesso Giove non lo considerò più come una vergogna per gli dei e iniziò a tenerlo in gran conto, mentre gli altri abitanti del cielo ardevano dal desiderio di commissionargli dei lavori importanti e grandiosi. Così Vulcano, attraverso le strade occulte del sotto suolo, giunse fino in Sicilia dove costruì un' enorme officina in cui liquefaceva ingenti quantità di metallo. Le fiamme, le scintille e il fumo che ne scaturirono trovarono sbocco nella vetta del monte Etna che si aprì formando un grosso cratere e provocando la sorpresa degli abitanti dell'isola. Lì, per volere degli dei, Vulcano forgiò lo scettro di Agamennone, le armi di Enea, la corona di Arianna, lo scudo di Achille, il tempio del sole. E fu sempre lì che fabbricò il superbo palazzo tutto di bronzo costellato di stelle che portò in cielo per viverci in tranquillità nelle ore di riposo assieme a sua moglie Venere e a suo figlio Erittonio. Il ragazzo ereditò proprio dal dio del fuoco le gambe corte e tozze, ma in compenso fu forte, saggio e valoroso come suo padre, tanto che gli Ateniesi lo elessero loro re. Erittonio era convinto che il suo popolo si sarebbe col tempo vergognato di avere un sovrano deforme. Allora, essendo ingegnoso quanto Vulcano, inventò un cocchio a quattro ruote tirato da una coppia di cavalli e da quel momento uscì per le vie della grande città solo su questo carro. Così i cittadini vedevano solo il suo busto forzuto e le sue braccia poderose che reggevano le redini per guidare quattro focosi destrieri con grande maestria.
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