policoro
  Il mio nome è ferro
 
Pesa di più un bambino di paglia o un bambino di ferro. Dipende dal bambino, forse. Comunque il bambino di ferro di questa storia era molto pesante. Così pesante che la sua mamma aveva smesso di prenderlo in braccio quando lui aveva otto mesi. Non ce la faceva proprio, e rischiava di farlo cadere per terra, e se un bambino di ferro cade per terra si ammacca e non lo ripari più. Questo voleva dire molte coccole in meno rispetto agli altri bambini più leggeri. Certo, la mamma lo coccolava lo stesso, ma doveva metterlo seduto da qualche parte, tipo su un divano, e dargli delle carezze o dei bacetti sul collo. E il tutto veniva fuori un po' strano, senza le lotte e i morsichini i pizzichi delle coccole normali. Forse è per questo motivo che il bambino di ferro, da quando aveva imparato a camminare, si muoveva un po' come un robot. E uno, e due, braccia e gambe dure come bastoni, anzi, come pezzi di ferro, cla clakclak clak.

E anche la testa, se la voltava lo faceva tutto in un colpo, e il suo collo faceva anche lui 
cla clak. Per la mamma era un vantaggio, perché con quei cla clak sapeva sempre dov' era il suo bambino. Per il bambino no, perché non poteva fare mai niente di nascosto dalla sua mamma. Non che volesse fare delle cose tremende. Però ogni tanto bisogna anche stare per conto proprio e avere qualche segreto. E magari fare qualcosa di proibito, tipo mangiare diciassette cioccolatini di fila dopo aver scoperto il loro nascondiglio. Invece no. Perché mentre era lì che rovistava nella credenza e finalmente aveva trovato i cioccolatini nascosti nel secchiello per il ghiaccio, un cla-clak lo tradiva e la mamma dall' altra stanza gridava:


Mettili giù subito, sai!  senza nemmeno aver bisogno di vedere. Il bambino di ferro aveva provato a oliarsi un po', con l'olio d'oliva, per vedere se il 
cla clak stava zitto, ma era riuscito solo a macchiare per sempre il tappeto della cucina e a ungersi tutto che sembrava una patatina fritta. Insomma, era condannato a un triste destino, e lo sapeva, e per questo era sempre un po' malinconico. Ma un giorno un' astronave aliena scese dal cielo e atterrò proprio di fronte alla casa del bambino di ferro, dove c'era uno spiazzo perfetto per le giostre e anche per gli atterraggi dallo spazio.

Gli alieni erano verdi, piccolini, e avevano un testone a pera rovesciata e gli occhi lunghi blu. Quando andarono in avanscoperta nei dintorni, videro subito con i loro cannocchiali il bambino di ferro che li guardava dalla finestra. Volarono su da lui (abitava al sesto piano), passarono attraverso il vetro (gli alieni possono) e lo circondarono dicendo: 
Zin zinZin zin!­che in alieno vuol dire: Guarda che bel bambino di ferro, sembra uno dei nostri robot, ma è più carino, e poi è anche vivo. Poi dissero ancora, questa volta a lui:  Zin zin. Zin zin. che in alieno vuol dire: Vuoi venire con noi nello spazio infinito alla scoperta delle galassie. E lui rispose:  Zin! ­ che in alieno vuol dire: Sì. Lui riusciva a capirli perché era un bambino a cui piacevano le lingue e infatti a sei anni sapeva già cento parole di inglese imparate guardando un corso per bambini alla tivù.


Gli alieni allora finirono di esplorare la zona e visto che non c'era niente di interessante, a parte il bambino di ferro, fecero anche abbastanza in fretta. Intanto lui scriveva una lettera di addio alla mamma: 
Cara mamma vado con gli alieni perché sono di ferro come i loro robot però sono vivo e questo gli piace. Almeno potrò fare quello che voglio per un po'. Poi magari torno va bene. Zin zin Poi gli alieni tele-trasportarono il bambino di ferro sull' astronave e partirono. Lui guardò dall' oblò dell' astronave la sua casa e la sua città e il mondo farsi sempre più piccoli; allora si voltò con un cla clak e sorrise ai suoi nuovi amici, pronto a fare il bambino di ferro dello spazio.
 
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